CoViD-19: mente umana ed emergenza
Quando il senso di precarietà entra senza bussare
Dal punto di vista umano ogni situazione di emergenza rappresenta un’esperienza esistenziale molto significativa. Se dovessimo definire un contesto del genere diremmo che un’emergenza scaturisce dall’incontro tra un evento inatteso e drammatico ed alcune persone che cercano di fronteggiarlo (Sbattella, 2009).
La fragilità dell’uomo e dei suoi saperi si confrontano, a livello individuale e collettivo, con forze obiettive e fantasmi di morte, ingaggiando spesso impegnative battaglie per la sopravvivenza fisica ed emotiva (Lavanco, 2003).
Dall’altro lato, come ognuno di noi sperimenta attualmente, entrano in campo risorse personali e sociali più funzionali, quali l’intelligenza previsionale, la capacità organizzativa, la solidarietà interpersonale o la resilienza personale e familiare.
Le catastrofi, infatti, possiedono, più di ogni altro evento, la capacità di far emergere il livello psicosociale degli equilibri umani, il tessuto cioè che lega la mente del singolo alla mente di una comunità.
Dei comportamenti collettivi in contesti critici si occupa, specificamente, la psicologia dell’emergenza, una disciplina che oggi, ancor di più, può aiutarci a comprendere come e perché le persone si comportano in un contesto improvviso e straordinario, simile a quello che tutti noi siamo chiamati a vivere oggi, senza sconti né riserve alcune.
In generale, le ricerche sui comportamenti collettivi nel pericolo rilevati in emergenze come i disastri, portano a risultati perlopiù coerenti, come risulta dalla mole di studi elaborata dal team del Disaster Research Center dell’Università del Delaware.
La reazione collettiva ad un disastro è generalmente positiva, nel senso che le persone cercano attivamente informazioni mettendo in atto comportamenti adattivi e funzionali al proprio benessere.
Un contesto di emergenza, infatti, crea inevitabilmente una situazione di profonda incertezza, che conduce le persone a rivolgersi tra loro, allo scopo di colmare la mancanza di informazioni.
Si costruiscono, in tal modo, reti di comunicazione informali qualitativamente differenti dalle reti esistenti in un periodo di consuetudine.
Oltre questo aspetto, assume una rilevanza cruciale anche la comunicazione dei leader e dei mass media prima, durante e dopo la fase emergenziale.
La definizione di disastro è anche frutto dell’attività politica ed istituzionale, le cui dichiarazioni di calamità o di stato di emergenza, costruiscono attivamente la percezione personale e sociale dell’evento stesso. I media, infatti, propongono implicitamente o esplicitamente, rappresentazioni sociali che hanno effetti sui processi di costruzione di un’emergenza.
Un famoso esempio è rappresentato dal cosiddetto “effetto CNN”, una teoria secondo la quale, i potenti mezzi di comunicazione, possono esercitare un peso determinante nella definizione dei problemi sociali e nella presa di decisione sulle politiche da adottare. In altre parole, un disastro o una crisi umanitaria, esistono ed entrano nell’agenda politica solo se vengono trattati dai mass media.
I mezzi di comunicazione, dunque, fungono sia da frame-setting, definendo il problema, sia da agenda-setting, nel dettare le priorità dell’agenda politica e del dibattito pubblico; ci suggeriscono, in sostanza, non come pensare, ma a cosa pensare.
Anche il death toll, ossia il conteggio delle vittime, è un altro elemento che contribuisce a costruire l’entità e la percezione del disastro.
Comportamenti collettivi e reazioni fisiologiche in emergenza
Cosa sappiamo già dalla letteratura scientifica?
Nei contesti di crisi, gli studi di psicologia dell’emergenza, evidenziano come le strategie di gestione dell’evento, siano generalmente volte al soccorso ed all’aiuto, prioritariamente verso figure prossime, come familiari ed amici. Il comportamento emergente, dunque, può essere ascritto soprattutto ad un comportamento prosociale, piuttosto che antisociale.
Secondo Mawson (2005), infatti, addirittura il comportamento di fuga, in una situazione di emergenza, può essere letto in chiave gregaria ed affiliativa; essa denoterebbe, infatti, un movimento verso qualcuno e non solo “via da”. L’avvicinamento a figure familiari o di riferimento, dunque, sembra essere il comportamento umano più diffuso ed istintivo.
A tal proposito, lo stesso autore, ha elaborato 4 tipologie di comportamento collettivo nelle situazioni di minaccia, che tengono conto sia del livello del pericolo fisico percepito che del livello del sostegno familiare/sociale disponibile nella situazione di pericolo:
1 Quando i livelli di pericolo fisico sono medio-bassi e gli individui sono prossimi a figure, luoghi o oggetti familiari, prevale una risposta affiliativa. Questa sarebbe la più comune nei disastri che colpiscono le comunità. In questo caso gli individui, infatti, tendono a contattare amici e rimanere insieme a casa.
2 Quando i livelli di pericolo sono medio-bassi, ma le persone si trovano da sole o con sconosciuti, si verifica generalmente un’evacuazione ordinata, senza manifestazioni di competizione e opposizione. Un esempio potrebbe essere rappresentato dal caso di una evacuazione da un edificio incendiato in una zona turistica.
3 Quando i livelli di pericolo sono elevati e le persone sono vicine a figure, luoghi o oggetti familiari, le persone vivono una situazione di ansia ma tendono ad allontanarsi dal pericolo in gruppo, mantenendo la vicinanza di familiari, amici o vicini di casa. Situazioni simili si possono verificare in unità militare, di fronte ad un pericolo inatteso o durante un’evacuazione su larga scala in caso di incendi devastanti.
4 Quando i livelli di pericolo sono elevati e gli individui sono da soli o con sconosciuti, prevale un comportamento individualistico e competitivo. Quest’ultimo scenario è quello più simile a ciò che è etichettabile come “panico di massa” anche se può essere interpretato come un tentativo di ricerca della prossimità ad oggetti di attaccamento distanti.
Le reazioni al pericolo sono accompagnate, parallelamente, anche dai cambiamenti psicofisiologici del nostro corpo, che fanno riferimento principalmente all’attività del sistema nervoso autonomo ed all’attività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Hypotalamus-Pituitary-Adrenal, HPA).
In condizioni di stress, l’ipotalamo viene stimolato da una serie di circuiti cerebrali specializzati che coinvolgono l’amigdala ed il sistema limbico. Esso, in condizioni di stress, produce corticotropina, che stimola a sua volta l’ipofisi a produrre l’ormone corrispondente.
Quest’ultimo, immesso nella circolazione sanguigna, stimola la corteccia dei reni a produrre cortisolo, conosciuto più comunemente con il termine di “ormone dello stress”. Il cortisolo ha molteplici effetti sull’organismo, tra cui l’aumento della glicemia, l’innalzamento della soglia del dolore ed il contrasto delle infiammazioni (Pietrantoni, Prati 2009).
Parallelamente all’attivazione fisiologica e neuroendocrina, Dyregrov, Solomon e Bassoe (2000) sostengono che risorse mentali straordinarie siano mobilitate per assicurare la sopravvivenza nelle situazioni di pericolo. L’individuo acquisisce una aumentata capacità di processare le informazioni, sia quelle immagazzinate in passato, sia quelle acquisite all’istante per prendere delle decisioni sulle azioni da svolgere. A livello intrapsichico l’esposizione a situazioni di pericolo tende ad avere effetti peculiari sulla memoria e sull’integrazione delle funzioni di percezione, identità e consapevolezza.
Cosa dicono le ricerche recenti relative a questa situazione?
Il 26 febbraio scorso, la rivista scientifica The Lancet ha pubblicato uno studio, realizzato da alcuni ricercatori del Dipartimento di Psicologia Medica dell’Università Britannica King’s College di Londra, dedicato agli impatti psicologici della quarantena da coronavirus.
Seguendo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), gli scienziati hanno considerato le precedenti ricerche scientifiche in materia di quarantena per trarre delle conclusioni applicabili alla pandemia da Covid-19.
I ricercatori hanno trovato sul tema complessivamente 3.166 pubblicazioni scientifiche, da cui hanno selezionato oltre 20 studi, condotti in dieci Paesi diversi – dalla Cina al Canada, passando per la Liberia e il Senegal – dedicati alle misure di quarantena messe in campo dal 2003 in poi, per contrastare la diffusione di malattie come la SARS, l’Ebola o l’influenza pandemica H1N1.
Queste ricerche ci permettono di trarre alcune conclusioni utili, pur con alcuni limiti, per comprendere l’impatto psicologico della quarantena forzata sulle persone.
Una ricerca, resa pubblica nel 2004, ha mostrato che 338 membri di uno staff medico a Taiwan, messi in quarantena durante l’epidemia della SARS, hanno rilevato nei giorni immediatamente successivi alla fine dell’isolamento, disturbi acuti da stress e una maggior propensione a vivere stati d’ansia ed insonnia.
Un altro studio, risalente al 2009, ha evidenziato come in un campione di oltre 500 dipendenti di un ospedale cinese, la quarantena abbia aumentato la probabilità di mostrare sintomi da stress post-traumatico.
Nelle popolazioni analizzate, dopo giorni di isolamento, gli studi riportano in generale l’insorgenza di sintomi psicologici come “disturbi emotivi, depressione, stress, disturbi dell’umore, irritabilità, insonnia e segnali di stress post-traumatico”, come hanno notato i ricercatori del King’s College, che hanno preso in considerazione anche caratteristiche individuali e demografiche che potessero facilitare l’insorgenza di questi sintomi.
Nonostante in questo caso i dati raccolti non siano ancora coerenti, un punto fermo sembra essere il fatto che, tra i soggetti più vulnerabili, ci siano i medici ed i membri delle équipe ospedaliera, così come i soggetti in giovane età.
Altre fasce della popolazioni più a rischio, come evidenziano i Centers for Disease Control and Prevention statunitensi (Cdc), sono gli anziani, i cittadini con malattie croniche e le persone che soffrono di disturbi mentali o che vi sono predisposti.
Come stiamo e cosa possiamo fare per prenderci cura di noi?
Lo stato d’animo che prevale in ognuno di noi è certamente è di paura, ansia ed angoscia.
Il limite che intercorre tra un’allerta funzionale (stress positivo o eustress) ed un eccesso di attivazione accompagnati da comportamenti poco lucidi e controproducenti (stress negativo o distress) è, però, molto labile.
Il meccanismo dell’ansia per noi tutti è un meccanismo fisiologico, utile ad attivare l’organismo dinanzi ad un allarme: fino ad un determinato livello è adattivo poiché ci rende più reattivi; superato lo stesso, invece, rende l’organismo incapace di reagire in modo proficuo.
Al cospetto del Covid-19 si può frequentemente avvertire una sensazione di impotenza, ma risulta fondamentale mantenere un saldo equilibrio tra la paura ed il rischio oggettivo.
In altri termini, come sostiene lo psicoterapeuta e direttore della rivista “Psicologia Contemporanea” Luca Mazzucchelli, distinguere lucidamente il “possibile dal probabile”. (https://www.youtube.com/watch?v=dAMWSpjFDBY )
In questo clima assumono un’importanza cruciale le strategie personali di adattamento alla situazione critica, quelle che in psicologia vengono definite strategie di coping.
Il coping non è altro che l’insieme dei meccanismi psicologici adattativi messi in atto da un individuo per fronteggiare problemi emotivi ed interpersonali, allo scopo di gestire, ridurre o tollerare lo stress derivante da una situazione specifica.
Durante queste settimane, attraversare alcuni momenti di disorientamento, angoscia e confusione, è più che naturale. Ciò che però potremmo riportare alla mente, per superare questa empasse, è che dobbiamo necessariamente accettare ciò che non possiamo controllare o cambiare. Questa accettazione deve, nei casi migliori, assumere però una connotazione positiva, costruttiva e proattiva.
Solitudine ed introspezione possono essere un’arma a doppio taglio durante questo periodo di isolamento.
Più frequentemente del solito le persone iniziano a “guardarsi dentro”, a fare i conti con i propri pensieri, vendendo a contatto con una dimensione che, durante i giorni ordinari, potrebbe essere coperta da una coltre di routine.
Per alcuni questo tempo diventa una preziosa opportunità di introspezione e di crescita, per i meno abituati, invece, potrebbe risultare un processo particolarmente controverso o addirittura doloroso.
E’ importante, quindi, prendere consapevolezza di come maneggiare queste emozioni e comprendere se e come utilizzare delle strategie per elaborarle nel modo migliore e, se necessario, con l’aiuto di un professionista.
Come sostiene Luca Mazzucchelli, il rischio è che l’uragano del coronavirus faccia diventare più resilienti le persone che già lo sono e più fragili le persone che, anche prima dell’evento, si presentavano più vulnerabili.
Motiviamoci, quindi, anche se inizialmente sembrerà di andare controtendenza, a mantenere un contatto con la dimensione della vita e del futuro, abbassando, non senza fatica, il volume del senso di impotenza.
Questo è possibile soltanto dando oggi stesso, un valore generativo al nostro tempo sospeso.
L’importante, continua Mazzucchelli, è che non si spenga l’interruttore della dimensione del futuro.
In altre parole, riapriamo, con un colpo di volontà, l’agenda che sta prendendo polvere in quell’angolo di tavolo.
Bibliografia
Lavanco, G., Novara, C. e Varveri, L. (2006). Il lavoro di soccorso. Psicologia contemporanea, 195, pp. 24-29.
Mawson, A.R. (2005). Understanding mass panic and other collective responses to treath and disaster. Psychiatry: Interpersonal and Biological Process.
Pietrantoni, L., Prati G. (2009). Psicologia dell’emergenza. Bologna: Il Mulino.
Sbattella, F. (2009). Manuale di psicologia dell’emergenza. Milano: Angeli.